RELIGIOSITA' POPOLARE E
compagnie laicali nella Livorno del granduca Pietro Leopoldo



La religiosità popolare del Settecento fu una religiosità concreta, concentrata sulle cosiddette “pratiche”, cioè sull’amministrazione dei sacramenti e sulle liturgie: le celebrazioni delle S. Messe, del Viatico per i moribondi, dei suffragi, i riti delle sepolture, le Novene, i Settenari, le Quarantore, le esposizioni, i digiuni, le prediche, il culto di reliquie, le confessioni ... e così via.
Era un mondo bene organizzato ed autonomo economicamente: si fondava sui “benefici ecclesiastici”, cioè quegli uffici o mansioni sacre che avevano una loro dotazione (terre, case, depositi in denaro) e davano al beneficiario (un sacerdote o un religioso regolare) il diritto di percepirne i redditi, la congrua. Chi aveva diritto di nomina poteva essere il papa, il re, il Comune locale o altri, i privati.


Queste forme di culto provenivano dalla volontà di persone ormai defunte, di governi scomparsi, di istituzioni ecclesiastiche di lontana origine: nascevano da un moto d’animo che era il desiderio di lasciare memoria di sé e conseguire la salvezza eterna con una donazione utile alla celebrazione di liturgie o alla fondazione e il mantenimento di cappelle, o a comprare e rinnovare gli arredi sacri, quelli di metallo prezioso – calici, argenteria d’uso – e quelli di stoffa, piviali, pianete, baldacchini ecc.


I benefici e le rendite, oltre alle elemosine e a quelli che si chiamavano incerti, erano importanti per il mantenimento del clero.
All’epoca il sacerdote secolare era solo: doveva conquistarsi la vita con i propri mezzi e capacità o con le protezioni, e avere una parrocchia, una cappella, un rettorato, una cattedra d’insegnamento, insomma una fonte di reddito. Ai giovani chierici la famiglia o un ente ecclesiastico intestava alcuni beni (terre e altro) al momento di ricevere gli ordini sacri per assicurare al vescovo che avevano un sostentamento.
Un religioso regolare, un frate o una suora, invece non era mai solo: aveva il convento, la “famiglia” e i beni comuni che lo sostenevano, il suo Ordine e la regola adattata nei tempi con i capitoli. Nella regola aveva molta importanza il comportamento morale nei riguardi dei confratelli, dei terzi e dell’autorità (priore).
C’erano poi, ma meno frequenti, quelli enti misti che erano le società di preti che si erano organizzate per vivere con meno affanni, come gli Oratoriani in Francia nel XVII secolo.

Il Seicento, epoca d’oro per il sistema dei benefici ecclesiastici, fu un secolo di popolazione limitata, falcidiata dalle epidemie, ed ebbe un’economia poco sviluppata; modesto dal punto di vista individualista, rimase dignitosamente povero.
Nel Settecento invece aumentarono la popolazione e i suoi bisogni e si affermarono filosofie materialiste. Semplificando un poco, la povertà del popolo non fu più dignitosa e cara agli occhi di Dio, ma sempre più disprezzata “imago mortis” (De Kempis), immagine della morte ... Di conseguenza, guardando alla Chiesa e ai suoi beni, si mise in discussione il sistema dei benefici e delle tradizioni sociali. Si disse che queste in realtà erano ipocrisia e conformismo, si parlò di esigenze autentiche della fede, si cominciò a distinguere la ‘religione delle pratiche’ dalla ‘religione del cuore e della mente, si idealizzò la religione naturale, personale, tollerante di tutte le opinioni in sostituzione di devozioni, di pratiche barocche, di dogmi e sacramenti ...


Ebbero il loro peso in quest’epoca di cambiamenti le controversie sul giansenismo: questa corrente eretica prese il nome dall’olandese Cornelio Jansen detto Giansenio, vescovo d’Ypres nelle Fiandre (1585-1638); fu poco importante dal punto di vista teologico, ma influente nella politica e nelle relazioni fra stati nazionali e Chiesa, relazioni che giunsero alla rottura negli ultimi decenni del Settecento.
La Chiesa affrontò allora una delle sue crisi più dure la quale riguardò varie istituzioni: gli ordini religiosi e i loro beni, le compagnie laicali e i loro beni e anche il papato.
In taluni ambienti, compresi quelli dell’alto clero, si trovò naturale che il primato del papa fosse ridotto a un semplice privilegio onorifico. Nell’Europa dei re illuminati, delle riforme dell’amministrazione e dell’economia, lo Stato Pontificio e il suo governo furono giudicati arretrati e il potere temporale, che avrebbe dovuto assicurare un’identità al di sopra delle nazioni, diventò una debolezza. D’altra parte l’influenza della Santa Sede sulle discussioni più scottanti del tempo fu quasi ininfluente, o ignorata, salvo la parentesi di Benedetto XIV, il card. Prospero Lambertini da Bologna († 1758).

Abbiamo parlato della varietà delle liturgie e delle devozioni del tempo. Il popolo le amava perché ad esso facevano riferimento, le manteneva con le sue elemosine, testimoniavano una ricchezza spirituale e intellettuale consolidatasi con il tempo e consentivano, nella visione ultraterrena, di tollerare con dignità le situazioni più difficili della vita.
Ma proprio sul tema delle devozioni c’era diversità di vedute.
Il credo giansenista, tutto teso a imporre una visione della chiesa torva e purista (il rigore e la sobrietà della chiesa primitiva) vide il male ovunque, le persone corrotte e la devozione popolare superstizione, se non raggiro dei semplici.

Fu davvero così?


Nelle sue forme più pure la devozione popolare propose significati importanti. Per fare un esempio, il ricordo di S. Anna e le feste per la Natività di Maria indicavano quanto erano preziosi il matrimonio, il dono della maternità e dell’educazione, la protezione dei giovani; e quella a S. Antonio da Padova con il piccolo Gesù in braccio, fa rilevare l’importanza dei bambini, in un secolo che di mortalità infantile ne vedeva tanta per le tremende malattie invernali e per la scarsa profilassi.
Anche il suffragio dei defunti, che allora era fatto con particolari forme ridondanti, fu per i giansenisti una manifestazione ‘indecente’; ma per le famiglie, per chi perdeva un caro o un bimbo restava una consolazione. E, per quanto riguarda il Viatico, la Chiesa ha sempre considerato importante il morire con dignità e nella grazia del Signore. Una delle più belle rappresentazioni cristiane è quella che riguarda il Transito di San Giuseppe: il padre adottivo di Gesù è steso sul letto e Gesù e Maria gli sono accanto e lo accompagnano con cura e affetto alla morte. In cielo sono pronti gli angeli ad accoglierne l’anima felice già di avere trascorso la vita terrena con questi compagni.
Questi sono alcuni dei significati più alti di quella devozione che allora fu rappresentata anche dalle compagnie laicali. Ed aveva un valore in un mondo in cui la crisi economica e il disinteresse dei governi avevano portato scontentezza e i più deboli a lasciarsi andare verso comportamenti “epicureisti”, come si diceva allora.


Livorno: la sua chiesa fu protagonista della crisi degli ultimi decenni del Settecento. Era stata la città favorita dai Medici, aperta ai traffici, al commercio marittimo di scalo e di spedizione, d’esportazione delle manifatture toscane. Era cosmopolita, multiculturale, tollerante, chiusa dentro le sue alte e belle mura; i viaggiatori della prima metà del secolo parlavano di una piccola città, elegante (Charles de Brosses), ben regolata, con le strade grandi, con una buona architettura, le case dipinte di fresco e tanta pulizia dappertutto (Johann Gaspar Goethe). Anche la popolazione faceva sentire a proprio agio (George Berkeley).
Negli ultimi decenni del Settecento però gli abitanti giunsero a circa 30000 e divenne una città affollata. D’altronde la popolazione era aumentata anche nel granducato e in Europa e i governi dovevano far fronte a una serie di carestie e all’aumento (speculativo?) dei prezzi dei generi alimentari più comuni, quali il pane.
I livornesi amavano la loro città, ed erano orgogliosi nel mantenerne le tradizioni stabilitesi con il tempo. Il granduca di Toscana, il giansenista Pietro Leopoldo, stando alle sue Relazioni del 1790, però aveva una visione diversa e giudicava con parole taglienti i suoi commercianti un po’ troppo spregiudicati e levantini, il suo popolo basso portato all’eccesso e il clero poco istruito e con interessi terreni ...

Pietro Leopoldo infatti faceva parte di quei puristi che giudicavano malevolmente il popolo, a qualunque città appartenesse. Livorno non era certo come la descriveva il granduca. Anzi, frequentando gli archivi storici e spogliando i registri delle sue compagnie ci si accorge che, come l’avevano vista i viaggiatori stranieri, era davvero una città elegante, raffinata che poteva dare alla società civile abili commercianti, uomini d’ingegno, artigiani e artisti e alla Chiesa dei sacerdoti o frati di cultura e di pietà.


La città allora ospitava diverse compagnie laicali, il cui numero testimonia il sincero attaccamento dei livornesi. Erano circa una quarantina ed come dice il nome, formate da laici devoti: venivano dette congregazioni se orientate sull’educazione religiosa e sul culto, confraternite se orientate verso opere di carità o di pietà, centurie (se formate da cento persone), buche (siamo a Firenze) se si riunivano in oratori che erano cripte.
Le compagnie più antiche risalivano al ’400-500, fondate da alcuni benefattori di varia origine, come i privati, o la nazione portoghese (S. Antonio da Padova) o i religiosi cittadini. In generale avevano uno statuto, dei beni stabili, degli ufficiali annuali, dei quali i più importanti erano il governatore, i consiglieri e il camarlingo (l’economo). Avevano anche un piccolo archivio. I loro registri erano ben tenuti: da quelli rimasti si vedono delle eleganti scritture, e precisione e rispetto per l’istituzione.
La tenuta dei libri contabili era obbligatoria, forse anche per evitare la tentazione di indebite appropriazioni di elemosine. I confratelli si vestivano con le cappe, il cappuccio e la buffa, tenevano in mano le torce o le candele o il gonfalone o altro segno distintivo in occasione delle riunioni, delle messe e le processioni, delle esposizioni, per le quarantore, l’ascolto delle prediche in Quaresima o Avvento o altre liturgie, oppure quando si dedicavano alle opere pie: ad esempio l’assistenza dei malati, il pubblico trasporto dei defunti sul “cataletto”.
Alcune compagnie si appoggiavano a una categoria lavorativa: ortolani (S. Maria Assunta a Montenero fondata nel 1637), bombardieri della Fortezza (S. Barbara), pizzicagnoli (S. Bartolomeo), osti, locandieri, pasticceri, vinattieri (S. Liborio e S. Martino), giovani di banco e commessi dei commercianti (S. Matteo), calzolai (S. Crispino e Crispiniano), facchini di dogana e del porto (Congregazione del Suffragio delle anime del Purgatorio).
Invece si occupavano di opere di edificazione e culto le compagnie del SS. Nome di Dio, della Vergine dell’Umiltà e di S. Giuseppe da Leonessa.
Altre avevano come fine l’insegnamento della dottrina cristiana ai bambini e ai catecumeni (la Purificazione di Maria Vergine e anime del Purgatorio) o il riscatto degli schiavi (SS. Trinità nel convento dei Trinitari scalzi), o la raccolta e l’assegnazione di una dote alle ragazze povere (p. es. S. Anna e Natività, S. Rocco).
Tutte le compagnie organizzavano il suffragio e la sepoltura dei propri morti – oltre a quella di San Sebastiano o Misericordia presente a Livorno dal 1595 – e nella maggior parte dei casi si appoggiavano ai conventi degli Ordini religiosi nelle cui chiese poteva esservi un altare dedicato: ai frati agostiniani di San Giovanni, ai Minori Osservanti, ai Teatini di Montenero, ai Domenicani (S. Caterina), ai Cappuccini della Trinità, i Trinitari a S. Ferdinando in Venezia Nuova.
Facevano invece riferimento alla Collegiata la compagnia della SS. Concezione (che erogava doti e manteneva in buono stato la cappella) e la Congregazione del Mantenimento della Messa dopo Mezzogiorno, fondata dalla Congregazione della Carità nel 1635.

Di questa quarantina di compagnie ne seguiamo alcune, spogliando velocemente i loro statuti o i registri del dare e dell’avere conservati all’Archivio di Stato di Livorno. Sarebbe bello un giorno farne uno spoglio sistematico e ricavare la vita livornese di questo periodo. Ci si sorprenderebbe per la sua ricchezza culturale e civiltà.
La compagnia di S. Anna – dedicata alla madre della Madonna protettrice dei coniugati – ricorda negli statuti l’estrazione delle doti per le fanciulle povere, perché potessero degnamente maritarsi e avere, un giorno da vedove, il ritorno della dote e la sussistenza.
Si erogavano doti però anche per monacarsi come suora corale, cioè addetta al coro o come conversa che non cantava e si occupava di vari lavori. Il denaro per metterle insieme proveniva da elemosine e donazioni dei privati.
Le doti, che erano di 20 “pezze” erano assegnate per estrazione tramite una borsa con le “pallottole” il giorno di S. Anna (26 luglio). Il giorno dopo la ragazza sorteggiata assisteva alla Messa cantata e faceva le sue devozioni, confessandosi e comunicandosi. Dal 1761 si ripristinò anche l’uso di fornirle una veste formata da 10 braccia di “saia arcimperiale” turchina con del nastro di seta bianca e un velo bianco “biffato” (rigato).
Altra compagnia laicale interessante da vedere fu la Congregazione dei Giovani di Banco e Commessi dei commercianti intitolata a S. Matteo, che i Vangeli ricordano come esattore e banchiere. Era diversa dalla congregazione che fu progettata per questa chiesa di San Matteo nel 1783.
La S. Matteo dei giovani di banco aveva la sede vicino all’episcopio, ma nel 1783 fu traslata a San Sebastiano. Interessantissima la storia minuta: sono le elemosine dei privati registrate nelle entrate con nome e cognome e le collette annuali, le donazioni; tra i tanti i nomi ricordati l’avvocato Pietro Michon, l’abate Galletti, Orazio Mei maestro di cappella. Tra i conti, cioè le fatture e le ricevute delle spese: la biancheria lavata da Teresa Fabre monaca alla SS. Nunziata, i lavori dei falegnami, dei ricamatori e dei paratori per le pianete, gli arredi sacri di broccato o di altra stoffa preziosa, il ricordo di Dorino setaiolo per nolo di “setine” con cui addobbare la chiesa per le feste, le candele portate dal curato Soldani (don Giuseppe Soldani Bensi), il pittore Calocchini, il libraio Carlo Giorgi, Giuseppe M. Michon operaio camarlingo dell’opera del Duomo che pagava l’affitto della stanza sopra la congregazione, il rinnovo dell’“autentica” (autenticazione) della reliquia di S. Matteo.
Il 21 settembre 1777, giorno di S. Matteo, si registrò la spesa della preparazione della cioccolata, dei biscotti e dell’“assistenza d’uomo” per essere venuto alla festa mons. proposto (Baldovinetti). Dare la cioccolata calda in tazza era l’omaggio riservato alle autorità importanti e agli aristocratici. Anche quando i Barnabiti lasciarono Livorno si pagò a padre Emanuele Vidani proposto del collegio di S. Sebastiano l’onorario per l’assistenza fatta; lo sostituì nei discorsi serali nel 1784 padre Flaminio dei Minori Osservanti.
Dopo la soppressione del 1785 la compagnia continuò in forma ridotta, quasi clandestina; nel febbraio 1786 due fratelli sopravvissuti andarono a Pisa a perorare una supplica fatta a Sua Altezza Reale per la sopravvivenza della congregazione.
La terza compagnia da ricordare è la compagnia della Natività di Maria con la sua chiesa. Aveva un suo camposanto in sagrestia, e in occasione della sepoltura di un familiare di qualche confratello, pagava il muratore per lo sterro. Festeggiava S. Anna e S. Lucia, faceva le Quarantore a ottobre, e varie esposizioni, anche nelle caserme degli ufficiali di dogana e militari. Per la festa dell’8 settembre si compravano la mortella e i mazzolini di timo da mettere davanti alla chiesa, per profumare l’entrata perché, anche se Livorno era una città pulita, vi era sempre quell’odore di stalla dovuto a carrozze, carretti e cavalli e muli.
Tanti nomi di soci e benefattori. Tra questi: Filippo Pomier La Comba, Pietro Audibert, Guglielmo Escudier, Francesco Ara arabo (1782), Iacopo Sgarallino, Odoardo Long inglese (1783) ... La cappa era di “roano”, bruno rossiccio, mentre quella per i ragazzi era turchina; quando le cappe diventavano vecchie si rifacevano, oppure erano vendute ai confratelli più poveri, come quelli della Compagnia della Natività del Gabbro. Nel 1782 Giovanni Cecconi del Gabbro fece il viaggio fino a Livorno proprio per comprarsi una cappa vecchia. Ma una piccola nota merita anche Anna Angiolini, la domestica della compagnia: cuciva le cappe e i bottoni, lavava la biancheria, puliva, e aveva un compenso. In chiesa c’era anche un organo suonato da un organista che era Carlo Antonio Vaselli, pagato mensilmente, e un coro di cui si ricorda il capo cantore Domenico del Tronco. Nei documenti si parla anche di un pellegrinaggio a Montenero fatto nel 1782 e dell’organizzazione che richiedeva.
Per quanto riguarda proprio i pellegrinaggi, nello statuto degli Ortolani di Livorno il cerimoniale della visita a Montenero era ben definito: avveniva il 15 agosto per l’Assunzione di Maria ed era fatta da uomini e donne, accompagnati da un sacerdote e da una fanciulla abbigliata con i colori della Madonna: veste turchina e velo bianco. Tutti attraversavano in processione la città, cantando litanie e salmi e, giunti a Montenero, presentavano l’offerta delle candele all’altare dell’Assunta.


Bene, le compagnie quindi non erano covi di gente superstiziosa e ignorante come scrivevano Pietro Leopoldo e i giansenisti. Rappresentavano un beneficio ecclesiastico bene organizzato, controllato dal governo per convenzione con l’arcivescovo di Pisa.
La libertà delle compagnie e i beni che possedevano erano però in contrasto con la povertà delle parrocchie e dei sacerdoti, e questo e la loro presenza presso i conventi dei religiosi, malvisti dai circoli giansenisti, e diffamati continuamente (“avidi di turpe lucro”, si diceva) ne decretò la soppressione nel 1785. Il modo in cui avvenne è particolare perché è legato ai tre principali personaggi del giansenismo toscano: tre nobili di alto rango.

1) Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, nato nel 1747 da Francesco di Lorena e da Maria Teresa d’Asburgo e fautore della politica del fratello Giuseppe II imperatore, ma in modo molto duro. Entrambi affermavano di detestare il popolo superstizioso e l’autorità pontificia. Il viaggio di Pio VI a Vienna provocò osservazioni poco benigne da parte di entrambi che trovarono l’entusiasmo dei viennesi per il papa veramente ridicolo. La sorella Maria Cristina commentando le riforme di Giuseppe non si peritò di dire: “Ora abbiamo due papi” (1789). Per Pietro Leopoldo nei rapporti fra stato e chiesa lo stato doveva avere sempre la meglio e la religione essere utile allo stato.

2) Scipione dei Ricci, nato a Firenze nel 1741. Dal 1772 entrò in corrispondenza con il conte abate Gabriele Du Pac de Bellegarde canonico di Lione, aderente alla chiesa scismatica di Utrecht, con il quale condivise oltre alla teologia giansenista anche le posizioni di politica ecclesiastica. Nel 1780 fu nominato vescovo di Pistoia e Prato, dove ebbe modo di mettere in pratica il suo credo purista e statalista. Si oppose al culto del Sacro Cuore, delle reliquie, fece dire la messa in volgare, fece abbattere gli altari secondari delle chiese, riscrisse i libri liturgici, promosse il culto a santi particolari, si scagliò contro le indulgenze ... ed ebbe un odio mortale per la Curia Romana e per gli ordini religiosi. Tra il 12 e il 28 settembre 1786 convocò e promosse il sinodo a Pistoia dove confluirono i più noti teologi giansenisti toscani e d’Italia. L’anno dopo il granduca da parte sua convocò l’Assemblea dei vescovi e arcivescovi di Toscana (23 aprile-5 giugno). Tuttavia non riuscì come si aspettava e in più il 20 maggio 1787 scoppiarono dei tumulti a Prato e, al suono delle campane, la gente di campagna accorse in città, perché era corsa voce che il vescovo volesse sopprimere la cappella della Cintola nel Duomo ...

3) L’altro nobile consigliere del granduca, e terzo protagonista di questa storia, fu Antonino Baldovinetti nato a Firenze il 22 gennaio 1745, forse amico del Ricci fin dalla giovinezza. Il 17 novembre 1775 fu nominato da Pietro Leopoldo proposto di Livorno, ed esserlo significava anche essere automaticamente vicario generale dell’arcivescovo di Pisa.
Baldovinetti era nobile, ingegnoso, integro di costumi e determinato ... e aveva un forte credo giansenista: non passò quindi molto tempo che cominciò a far pesare la fiducia che in lui aveva il granduca per sottrarsi all’autorità dell’arcivescovo, e a cercare di rendere giansenisti il clero e il popolo affidati alla sua cura.
Aveva vari metodi. Mostrava in pubblico sempre antipatia per il clero che non la pensava come lui, per le prediche dei frati durante i periodi di Avvento e di Quaresima, e idee antiromane ben presto note anche a Roma e allo stesso Papa. Per lui come per tutti i giansenisti toscani – e lo dichiarò apertamente – il vero papa era il granduca.
Allo stesso modo del Ricci, il Baldovinetti si mantenne in contatto epistolare con l’abate Bellegarde che ogni settimana mandava da Amsterdam a Livorno tramite le navi numerose casse di libri dirette a entrambi, e come il Ricci, abolì tutte quelle esteriorità che erano care ai livornesi: processioni, luminarie, culti di reliquie, l’accompagnamento di giorno dei morti, che invece dovettero essere seppelliti di sera, in campagna e senza accompagnamento. Fece anche cacciare i Padri Barnabiti da San Sebastiano per formare un Convitto ecclesiastico che propagandasse le idee gianseniste. Nel 1784 presentò al granduca il suo ingegnoso piano di riforma in cui consigliava (e poi eseguiva) la soppressione di religiosi (Agostiniani e Domenicani) e delle confraternite, profanando i loro oratori, per assicurarsi i mezzi finanziari per compiere i suoi disegni: le terre e i beni su cui si appoggiavano i benefici degli enti religiosi.

La legge di soppressione delle compagnie è del 21 marzo 1785, ed ebbe valore per tutto il granducato. Pietro Leopoldo la giustificò con la considerazione che erano troppe, facevano troppe feste, sviavavano il popolo dalle parrocchie e in campagna servivano di pretesto per fare dei desinari o per andare a caccia, all’osteria, o per fare mille “baronate”.
Al posto delle molte compagnie ne fu eretta una sola, la compagnia della Carità per ciascuna parrocchia dedita agli atti di pietà e di misericordia cristiana. Aveva i suoi ufficiali: governatore, consiglieri, camarlingo, sagrestani, infermieri, scrivani, buonuomini che visitavano col parroco le case dei poveri. A Livorno nella Collegiata fu attuata il 24 gennaio 1786, inaugurata il 2 febbraio ed ebbe subito 500 fratelli vestiti con cappa bianca.
Le chiese delle vecchie compagnie furono chiuse, o vendute, e i loro benefici incamerati dai Patrimoni Ecclesiastici, mentre gli arredi sacri, le argenterie distribuite tra le parrocchie. I Patrimoni Ecclesiastici, va detto, divennero ricchissimi, impiegarono i fondi per fare spese per le chiese curate e le canoniche di campagna, molto bisognose, nell’aumentare le pensioni ai preti ... ma essendo il fondo immenso, presto tutto finì nel caos amministrativo e poi nel disavanzo.

Le cose tuttavia sembravano andare bene per l’entusiasta proposto riformatore ... ma invece della gratitudine – come pensava – la soppressione delle compagnie assieme a quella degli usi di sepoltura gli attirarono l’odio dei livornesi. Forte dell’appoggio del granduca, non ebbe la sensibilità di capire che il popolo trovava nelle compagnie la sua storia e uno scopo: le aveva abbellite nel tempo con le sue elemosine e tramite esse aveva occasione di fare delle opere cristiane, di pregare, di pentirsi, di essere migliore, di rendere migliori i propri figli, di liberare i poveri schiavi.
Baldovinetti non seppe nemmeno valutare ciò che nelle sue riforme c’era di buono, come l’interesse per le parrocchie e i preti che erano in miseria o poco dignitosi, specialmente in campagna; o il controllo della spesa che nelle case si faceva per le messe dei morti, magari proprio quando si era poveri e si negavano sussidi ai familiari. Non capì le differenze ... Inoltre gli furono contro l’arcivescovo di Pisa, che con sgomento si vedeva passare davanti tutte le carte che il proposto e il granduca progettavano senza consultarlo, e Francesco Seratti, consigliere di Pietro Leopoldo e, dal 1789 al 1796, per punizione per la sua opposizione al granduca, governatore di Livorno.
Così, quando nel marzo 1790, il granduca fu chiamato a Vienna a diventare imperatore, perché Giuseppe II era morto (20 febbraio), il popolo che già sapeva che il papa, l’arcivescovo e il governatore non approvavano, si accorse di essere sovrano e volle l’abolizione delle novità introdotte.
Già nel 26 ottobre 1789 un gruppo di persone che non aveva gradito la legge sulle sepolture aveva tirato sassate e pentole piene d’immondizie agli “associatori” dei morti che passavano nel quartiere di Venezia.
Ma fu d’esempio nell’aprile 1790 Pistoia che si sollevò contro il vescovo de Ricci facendolo fuggire. I livornesi ne trassero ispirazione e ciò che accadde è narrato dalle relazioni di Lorenzo Baroni, amico del Baldovinetti.
Il 31 maggio 1790 per la festa di S. Giulia, il popolo volle omaggiare la patrona con ogni onore e con il ripristino della compagnia nella sua propria sede. La confusione iniziò alle otto del mattino, e presto il Baldovinetti dovette cedere le chiavi della chiesa che era chiusa. Con il passare delle ore, i rivoltosi divennero circa 2500 e furono sempre più minacciosi, ma, pur avvertendo il pericolo, il pro governatore Pierallini non poté o non volle intervenire.
Fu fatta così la processione della santa, con le cappe antiche, in modo disordinato con schiamazzi, mortaretti, gazzarre, fischi e motteggi pesanti contro il proposto costretto a parteciparvi. Furono poi saccheggiate case degli Ebrei.
Alle 19, armato di coraggio, arrivò a Livorno l’arcivescovo di Pisa e, apprezzandone l’intervento, il popolo chiese che le chiese sconsacrate fossero da lui ribenedette ... oltre naturalmente al prezzo calmierato dei generi di prima necessità. Poi i rivoltosi andarono anche al Convitto a cercare il proposto. Ma il Baldovinetti, visto che i tumulti non si calmavano, fuggì la notte stessa.

Così tornò la pace. I fratelli della compagnia della Carità furono cacciati. Il 3 giugno sette compagnie rimesse in piedi con i loro cappellani e con le cappe con la buffa parteciparono alla processione del Corpus Domini. Avevano riavuto anche loro le argenterie confiscate nel 1785 perché nelle loro chiese – che furono riaperte – si potesse celebrare degnamente la messa. Fece la funzione del Corpus Domini l’arcivescovo che assieme al governatore Francesco Seratti e, per far ritornare la pace in città, promise quanto il popolo chiedeva.
Le richieste erano queste e furono tutte accordate: la rimozione del proposto, l’abolizione del Convitto di S. Sebastiano e il ritorno dei PP. Barnabiti, il ripristino dell’insegnamento del catechismo ai fanciulli, il ritorno dell’antico rito dei suffragi e delle sepolture, la giornaliera esposizione del SS. Sacramento nelle chiese alle ore consuete, la predica nell’Avvento e in Quaresima, il ripristino delle Quarantore e degli esercizi spirituali, le processioni fatte con decoro e pompa.

Quale fu il seguito di questa storia? Pietro Leopoldo diventò Imperatore nel 1790 e da Vienna nel giugno, volendo mantenere la tranquillità della Toscana, autorizzò il ripristino delle pratiche di culto e disciplina ecclesiastica, comprese le compagnie che poterono accettare offerte dai benefattori e le tasse volontarie. Il granduca, malato, nell’aprile 1791 ritornò in Toscana e ripartì a maggio. Morì il primo marzo 1792 e la moglie lo seguì nella tomba una quindicina di giorni dopo. Un anno dopo – va detto – morì la sorella Maria Antonietta regina di Francia, ghigliottinata (16 ottobre 1793).
Il figlio secondogenito di Pietro Leopoldo, Ferdinando, fu granduca di Toscana dal 7 marzo 1791. In materia religiosa fu più saggio del padre e lasciò ai vescovi facoltà di decidere. A Livorno le compagnie ripristinate però furono in numero minore di quelle del passato e a Montenero i PP. Teatini furono sostituiti dai PP. Vallombrosani.
Scipione de Ricci si dimise dal vescovado di Pistoia nel 1791. Nel 1794 arrivò la condanna della Santa Sede del Sinodo pistoiese (Bolla “Auctorem Fidei”); si ritirò quindi a vita privata nella villa di famiglia di Rignana di Greve in Chianti. Nel 1799 fu arrestato dai controrivoluzionari detti Viva Maria e imprigionato. Nel 1805 incontrò Pio VII in esilio e si riconciliò con la Santa Sede. Morì in pace a Rignana nel 1810.

Antonino Baldovinetti, fuggito da Livorno il giorno della festa di santa Giulia, si dette a scrivere lettere e memorie al granduca per denunciare complotti contro di lui, per poter ritornare ad occupare il posto che desiderava. Ma nessuno lo voleva più. Nel 1791 rassegnò le dimissioni e poi si ritirò per sempre a Marti dove era la villa di famiglia. Conservò i rapporti epistolari con i giansenisti del suo tempo, desiderosi di studiare le cause che avevano fatto sì che i principi cambiassero idea così in fretta. Il “Solone della Toscana” - così chiamavano un tempo Pietro Leopoldo - ora era diventato inetto e mutevole e... un “principe che ignorava che il troppo governare è un mal governare”.
Il Baldovinetti però aveva spirito combattente e continuò a lavorare in segretezza, in contatto con gli amici di Francia ... Dal 1797 non scrisse più lettere e le notizie su di lui diventarono rare. Morì nella villa di Marti il 18 luglio 1808.

Alcune delle antiche Compagnie laicali di Livorno sono presenti ancora oggi: l’arciconfraternita del SS. Sacramento e Santa Giulia, l’arciconfraternita della Misericordia, l’arciconfraternita della Purificazione, S. Maria del Suffragio a Montenero, con i loro statuti e regolamenti adattati ai tempi.

Paola Ircani Menichini,
Livorno, parrocchia di San Matteo, centro di don Renato Roberti, 18 giugno 2009.
Rivisto nel settembre 2021. Tutti i diritti riservati.



Si tratta del testo ‘in forma lunga’ della conferenza da me tenuta a San Matteo di Livorno giovedì 18 giugno 2009, ore 21, nella sala 51 della parrocchia, su invito del parroco don Matteo Gioia, e degli organizzatori, Bruno Ferri e Vittorio Passetti.
In seguito mandai lo scritto ‘in forma breve’ a Tranfinito.eu, un sito web che lo mantenne in rete fino a quando il suo fondatore poté farlo.
Oggi è salvato su documen.site, dove è detto di autore anonimo, anche se il mio nome è scritto nel titolo. Confermo qui di esserne l’autrice.

Fonti e bibliografia.

Archivio di Stato di Livorno, Inventario 21, e nn. 322, 352, 672.
Alfred Reumont, Giuseppe II, Pietro Leopoldo e la Toscana, Firenze 1876.
Girolamo Cazzaniga barnabita, Un giansenista toscano: Antonino Baldovinetti Proposto di Livorno, Livorno 1939.
Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, Relazioni sul governo della Toscana, a cura di A. Salvestrini, Firenze 1977.
Storia della chiesa, collana diretta da Hubert Jedin, Tra Rivoluzione e restaurazione 1775-1830, vol. VIII/1, Jaca Book, Milano 1977.
Paola Ircani, I fatti del Giansenismo toscano nelle ’Ricordanze’ del p. Costantino Battini, osm, in “La SS. Annunziata di Firenze, Studi e documenti sulla chiesa e il convento, 2, Firenze 1978.
AA.VVV, I Religiosi a Livorno, Sinodo della Chiesa Livornese, ottobre 1984.
Giovanni Gelati, La Madonna e i Livornesi, in ”Due secoli di presenza vallombrosana a Montenero“, Genova, 1992.
Francesco Terreni, L’arciconfraternita del SS. Sacramento e di S. Giulia patrona di Livorno, Livorno 1996.
Paolo Rognini, La città di Livorno vista dagli eruditi del passato, in ”Rivista di Livorno”, n. 61, 2007.


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RICONOSCIMENTI


Le fotografie


– La chiesa di San Matteo oggi.

– Opere di misericordia alla maniera di Bernardino Poccetti, disegno di Antonio Fedi, Firenze, sede dell'Arciconfraternita della Misericordia.

– Pianta della città e porto di Livorno, sec. XVIII, in «La Toscana dei Lorena», 1991.

– Il duomo di Livorno in una cartolina di inizio secolo XX.

– Wenceslaus Werlin, Il granduca Pietro Leopoldo di Toscana conla moglie Maria Ludovica di Borbone Spagna e i primi sei figli.

– Medaglia commemorativa dell’Arciconfraternita della Misericordia di Livorno, da La Moneta.it

– Paliotto dell’arciconfraternita di Santa Giulia, da cultlivorno.wordpress.com

– La chiesa di Santa Giulia, da Wikipedia.

– Giuseppe Maria Terreni, Disegno preparatorio dell’altare di San Matteo, 21 Gennaio 1782, Archivio di Stato di Livorno, dal libro: 5 marzo 1781, “Che si Fabbrichi una nuova chiesa”, a cura di Bruno Ferri e Vittorio Passetti, Livorno s.d.

– La chiesa di San Matteo in una forma non più esistente, Ivi.

– Niccola Lotti, Progetto pianta della chiesa, ASLi, Ivi.

– La locandina della conferenza del 18 giugno 2009.


Precedenti

«San Sebastiano in Banchi di Pisa e il rettore Lanfranchi»
«Jan van Diest chierico "de Cruce" con Enrico VII a Novara (1310)»

«ARTI E CORPORAZIONI - Breve storia dell’associazionismo di mestiere e commercio in Toscana e in Italia»
«La Cinquantina di Cecina e l'ospedale di Vada (sec. XIII-XIV)»
«San Bernardo di Pisa e le decime del vescovo di Fossombrone»
«L'ospedale di san Nicola a Rosignano (Ospedale Nuovo di Pisa)»
«A Palaia nel castello e nelle botteghe dei notai»
«La masnada del castellano di Montopoli Valdarno»
«Santa Maria Maddalena di Piombino (Ospedale Nuovo di Pisa)»
«I monaci di Classe di Ravenna nell'anno in cui morì Dante»
«Le capre di Pomonte - L'Ospedale Nuovo di Pisa all'Isola d'Elba»

«San Martino di Catignano e il nuovo rettore»

«San Pietro a 'Macadio' e Bottano di San Giuliano Terme»

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«Le mute campane – Breve storia di San Giovanni al Gatano di Pisa»

Presentazione virtuale del libro: I Frati Minori Conventuali di San Francesco di Volterra e altre vicende, 2020 «clic»



La prima parte del libro in «Academia.edu»